Puricini
Gli abitanti di Tuglie sono «puricini» (pulcini). I soliti vicini li chiamano in questo modo riferendosi allo stemma civico del paese nel quale è riprodotta una calandra, uccello della famiglia dei passeracei, che così com’è stata stilizzata assomiglia davvero a un pulcino. Ma era tutt’altro che innocua la calandra: essa nidificava nelle tuie, piante conifere che hanno dato il nome a Tuglie, ed era preziosa alleata degli agricoltori. Infatti, nel periodo che precedeva la mietitura, la calandra dava la caccia agli insetti, soprattutto le cavallette, che infestavano e distruggevano il grano. Riconoscenti, i Tugliesi l’hanno immortalata nel loro stemma, ma da esso si sono buscati l’epiteto di «puricini».
C’è anche un’altra circostanza legata, ma questa volta indirettamente, ai pulcini. I Tugliesi, in occasione della festa patronale, un tempo usavano vendere nelle osterie uova lesse. Ma spesso queste erano «cuatizze» (guaste) cioè talmente vecchie che per poco gli avventori non ci trovavano dentro il pulcino già bell’e formato. Da questa circostanza le immancabili reazioni dei vicini, spesso vittime di quelle uova, i quali portavano all’esasperazione quell’epiteto di «puricini» che proprio esaltante non è.
Tuttavia i Tugliesi hanno risposto per le rime, non con altri epiteti ma – come dire? – con i fatti. Caratteristica del loro paese è quella di avere, tra i vari soprannomi individuali o di intere famiglie, tutta la gamma di «piche» (da «pica», organo sessuale maschile, questa volta, perché «pica» vuol dire anche gazza). E perciò «pica» (pene), «menza pica» (mezzo pene), «tre piche» (fre peni), «pica te scéncu» (pene di manzo), «pica t’oru» (pene di oro) e via di questo passo.
L’origine di questo inno alla virilità è curiosa e vale la pena raccontarla anche se la storia è un po’ scollacciata. Durante la vendemmia, dunque (parliamo dei tempi andati, naturalmente), in attesa che i grandi tini ormai colmi venissero pesati e trasportati nei vari stabilimenti della zona, gli uomini e le donne rimanevano momentaneamente senza far niente. Si trattava allora di passare il tempo, e mentre le donne si riunivano per conto loro a parlare e a volte spettegolare, gli uomini facevano altrettanto, non per parlare però, ma per dare prova di virilità. Non si fraintenda: erano prove innocenti, ma non per questo meno probanti. Usavano infatti prendere un paniere pieno d’uva e appenderlo letteralmente al proprio membro. Alla fine della inconsueta gara veniva eletto «pica te scéncu», «tre piche» o «pica t’oru» (massime onorificenze) chi riusciva a reggere più a lungo il paniere pieno d’uva. Gli altri dovevano accontentarsi della bassa classifica (in certe gare non esisteva la via di mezzo) e si buscavano un «menza pica». Quelli erano verdetti spietati e senza appello.
Come raccordare significato e origini della gamma variegata di questo epiteto con l’innocente «puricfni» è un mistero. Come mistero è per quale motivo Tito Livio chiamò i Tugliesi «minores gentes». Stando a quello che racconta, non di «minores» si trattava, ma di maggiorati.
Alcuni soprannomi Individuali
Liccarofe (lecca sputi; riferito a coloro che facevano i ruffiani e i leccapiedi per avere in cambio qualcosa da mangiare o qualche favore), Mangiafave (mangia fave), Menza pica (mezzo pene), Menzuròtulu (mezzo rotolo; famiglia di persone basse), Ndarizza-pili (raddrizza peli; dalla sua abitudine a puntualizzare ogni cosa), Panesùlo (solo pane: questa era la sua spesa), Pica (pene), Picalesa (pene lesionato), Plcarella (piccolo pene), Pica-te-oru (pene d’oro), Pica-tescencu (pene di giovenco), Sannari (denti sporgenti; soprannome dovuto ai denti sporgenti oppure ad una fame implacabile), Strafica (lucertola; riferito a coloro che, in tempi aliti- chi, catturavano le lucertole facendole poi gareggiare per il divertimento della gente), Tre piche (tre peni), Trinchiapirate (trattieni peti).